MTM n°14
MEDICAL TEAM MAGAZINE
Anno 5 - Numero 1 - gen/giu 2006
Il Personaggio
 


Dott. Eugenio Raimondo
Dott. Eugenio Raimondo
Direttore scientifico
e responsabile editoriale.


Anno 5 Numero 1
gen/giu 2006

 

Lo stato di sicurezza ha ostacolato qualsiasi progresso della sanità in Iraq



L’IRAQ DI IERI L’IRAQ DI OGGI
Intervista a James Martone
di Eugenio Raimondo

James Martone è un giornalista, impegnato nello studio dell’Islamistica presso il Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamistica a Roma.
Dal 1998 al 2003, è stato corrispondente in Iraq per la CNN.
Precedentemente ha lavorato sempre per la CNN in Egitto, al Cairo.
Vuole utilizzare i suoi studi per promuovere una maggiore conoscenza e comprensione del mondo islamico in Occidente

[Tradotto dal inglese, da Anna Bottegal]

Com’era lavorare in Iraq?
militari Prima dell’occupazione da parte degli Stati Uniti nel 2003, era affascinante lavorare in Iraq. Il popolo iracheno era costituito da numerosi gruppi etnici e religiosi, di alcuni dei quali non conoscevo nulla prima di allora, ad esempio dei cristiani di ordini antichi come i Caldei e gli Assiri, i Sabei conosciuti come cristiani di Giovanni Battista, in aggiunta alla maggioranza musulmana composta da Sciiti e Sunniti. C’erano gli Yaiziti, talvolta erroneamente collegati ai “devoti del demonio” che rispettano Satana al fine di non avere inconvenienti con lui.
Ognuno sembrava condurre la propria vita, ma tutti noi sappiamo che dure leggi e un severo servizio di sicurezza non avrebbero permesso una conflittualità interna nel caso in cui uno dei gruppi avesse avuto il proposito di creare scompiglio.
Fra i primi amici avuti c’erano dottori iracheni e operatori AID, spesso in difficoltà a causa della cronica scarsità di medicine e di attrezzature di cui incolpavano l’embargo voluto dall’ONU, la cui responsabilità ONU e USA attribuivano però a Saddam Hussein.
Prima della guerra del Golfo del 1991, intrapresa dagli USA per cacciare l’Iraq dal Kuwait, l’Iraq, in campo medico e sanitario era allo stesso livello di altri paesi europei. In seguito, lacerato dalla guerra, non aveva più mezzi per medicine e team medici stranieri che hanno visto nello stesso tempo deteriorate le loro attività all’interno del paese, negli ospedali e nelle cliniche. Come reporter era sempre difficile raccontare di malati e della mancanza di medicine. Assistere a scene di cuori che smettono di battere spesso rende difficile essere obiettivi. Il dolore era ovvio ma meno ovvio era chi biasimare. Per esempio gli ufficiali iracheni, da cui ero sempre accompagnato, attribuivano la causa del marcato aumento di casi di cancro alle bombe di uranio impoverito che gli USA avevano usato durante la guerra, mentre gli USA non solo negavano questo, ma asserivano, in accordo con l’ONU, che, per la maggio parte, l’Iraq avrebbe potuto permettersi con il programma Oil for food di importare tutte le medicine necessarie, se solo il Regime di Baghdad avesse scelto di farlo. A chi credere?
bomardamentiAlcuni iracheni mi dissero che erano stati privati del lusso delle medicine da una pre-guerra del Golfo; medicine di cui, per un semplice attacco di influenza, i cittadini sarebbero stati riforniti gratuitamente in sovrabbondanza per settimane e settimane così che, a detta loto, abituati ad avere troppe medicine rispetto alle necessità non erano pronti ad affrontare la loro radicale diminuzione. Un altro problema era l’impellente bisogno di personale medico e infermieristico altamente qualificato, poiché, visto che i salari in Iraq erano stati ridotti quasi a niente a causa della crescente inflazione, esso era obbligato ad espatriare per guadagnarsi da vivere.
Riguardo agli infermieri, l’Iraq una volta era stato capace di importarli da tutti i paesi stranieri, ma ora non più e trovare infermieri, specialmente infermiere locali, era quasi impossibile per ragioni culturali che ponevano un tabù sociale nelle relazioni con i pazienti malati o morenti.
Al tempo dell’invasione, dati dell’ONU avevano mostrato un marcato incremento di mortalità infantile che veniva attribuito, per lo più, alle precarie condizioni sanitarie conseguenti all’embargo. Ma l’embargo rimase effettivo a causa di ciò che alcuni paesi occidentali, guidati dagli USA, dicevano circa il rifiuto di Saddam Hussein ad aprire incondizionatamente il paese alle ispezioni internazionali sugli armamenti.
Qual è la situazione ora?
Ho lasciato l’Iraq poco dopo l’invasione, nel 2003, quindi esattamente 3 anni fa.
Da quello che posso capire, lo stato di sicurezza ha ostacolato qualsiasi progresso della sanità in Iraq.
Le organizzazioni non governatine, ONG, che si sono attivate subito dopo la caduta di Saddam Hussein, in molti casi sono state obbligate dalla mancanza di sicurezza a chiudere o a lasciare solo un numero esiguo del personale all’interno del Paese. Ritengo che prima che sarà stabilita la sicurezza, ossia fino a quando non sarà assicurato agli operatori delle ONG di svolgere il loro lavoro senza minaccia di pericolo o di morte, la situazione sanitaria non potrà migliorare significativamente.
Io ho molti amici iracheni cristiani che studiano qui a Roma, in Vaticano. Alcuni di loro esprimono preoccupazione per l’aumento di violenza contro i cristiani in Iraq, un problema di cui non si era a conoscenza sotto Saddam Hussein. Mi è stato raccontato da un giornalista iracheno che diversi gruppi di musulmani obbligano donne non musulmane a velarsi, minacciandole, in caso contrario. Un amico musulmano sunnita, il mio droghiere, mi telefona da Baghdad circa una volta al mese. È un po’ imbarazzante, lui mi chiama solo per avere mie notizie, per assicurarsi che io stia bene, come se io fossi quello che sta a Baghdad e lui quello che sta a Roma! Lui dice di coltivare la speranza che la situazione politica si risolva da sola, alla fine. Lui era stato al Parlamento, ma non è stato eletto.
Cosa ricordi maggiormente dell’Iraq?
donne arabeRicordo che, sebbene io fossi americano e giornalista, molta gente era estremamente gentile con me e voleva conoscere il motivo per cui gli USA non collaboravano per abolire l’embargo.
Loro mostravano una genuina curiosità verso il mondo esterno e molti dicevano che avrebbero voluto visitare l’America nonostante la sua reputazione di essere uno dei paesi sostenitori dell’embargo. Tutti erano rispettosi del mio credo religioso ed erano felici di sapere che io a Baghdad andavo a messa nella chiesa cattolica.
Il Papa, a quel tempo Giovanni Paolo II, era molto elogiato per quello che gli iracheni dicevano fosse il suo messaggio di pace e di supporto per i territori palestinesi occupati.
Ricordo come la popolazione fosse straordinariamente forte.
Molti di loro che avevano conosciuto i proprio paese solo in stato di guerra, prima con l’Iran, poi con il Kuwait, poi con l’Occidente, riuscivano ancora a ridere e divertirsi. Quasi ogni casa, sempre lo ricorderò, aveva una foto di un giovane uomo, ucciso dalla guerra di Saddam Hussein con i suoi vicini. Ancora ognuno sembrava nutrire un filo di speranza. Sono sicuro che se fossi stato spaventato dalle bombe che sarebbero cadute molti iracheni avrebbero riso dicendo di aver visto tutto già prima.
Quali sono le tue aspettative per l’Iraq?
È difficile non essere pessimisti. Ma quanto peggio possono andare le cose? È evidente a molti che non si può “imporre” la democrazia, ma che essa deve nacsere da sola con i suoi tempi. Questo non significa accordo con alcune affermazioni arabe secondo cui la democrazia è solo per l’Occidente. Io ritengo che ogni nazione possa e debba avere elezioni libere, un governo rappresentativo e vivere in una società in cui non si debba avere paura, quotidianamente, di esprimersi. Ma sono pessimista riguardo al fatto che, l’attuale governo degli USA in Iraq, stia lavorando in questa direzione.
Sono state fatte false promesse ed ora si trovano in un pasticcio. Io non so quale sia la risposta a tutto ciò, ma penso che potrebbe essere di aiuto se gli USA investissero più denaro al fine di stabilizzare la situazione in Iraq e smettessero di pensare all’Iran. Il danno fatto finora è sufficiente, non credi?
Gli iracheni che ho incontrato erano persone come si possono incontrare qui o negli USA o ovunque. La maggior parte desidera la felicità e una vita decorosa per loro stessi e per i propri figli. Credo che una volta data loro la possibilità, essi lavoreranno in questa direzione, per quanto lento possa essere il processo.
Sto terminando i miei studi di Islamistica al PISAI a Roma e spero di essere in grado di metterli a servizio qui, in qualche modo, nella diffusione di una migliore comprensione non solo dell’Iraq ma dell’intero mondo arabo musulmano. Credo che la maggior parte delle ansie sull’Islam siano basate su malintesi e sulla violenza che, per altro, la maggior parte dei musulmani rifiuta?