L’IRAQ DI IERI L’IRAQ DI OGGI Intervista a James Martone
di Eugenio Raimondo
James Martone
è un giornalista, impegnato nello studio dell’Islamistica
presso il Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamistica a Roma.
Dal 1998 al 2003, è stato corrispondente in Iraq per la CNN. Precedentemente ha lavorato sempre per la CNN in Egitto, al Cairo.
Vuole utilizzare i suoi studi per promuovere una maggiore conoscenza
e comprensione del mondo islamico in Occidente
[Tradotto dal inglese, da Anna Bottegal]
Com’era lavorare in
Iraq?
Prima dell’occupazione da parte degli Stati Uniti nel 2003,
era affascinante lavorare in Iraq. Il popolo iracheno era costituito
da numerosi gruppi etnici e religiosi, di alcuni dei quali non conoscevo
nulla prima di allora, ad esempio dei cristiani di ordini antichi
come i Caldei e gli Assiri, i Sabei conosciuti come cristiani di
Giovanni Battista, in aggiunta alla maggioranza musulmana composta
da Sciiti e Sunniti. C’erano gli Yaiziti, talvolta erroneamente
collegati ai “devoti del demonio” che rispettano Satana
al fine di non avere inconvenienti con lui.
Ognuno sembrava condurre la propria vita, ma tutti noi sappiamo
che dure leggi e un severo servizio di sicurezza non avrebbero permesso
una conflittualità interna nel caso in cui uno dei gruppi
avesse avuto il proposito di creare scompiglio.
Fra i primi amici avuti c’erano dottori iracheni e operatori
AID, spesso in difficoltà a causa della cronica scarsità
di medicine e di attrezzature di cui incolpavano l’embargo
voluto dall’ONU, la cui responsabilità ONU e USA attribuivano
però a Saddam Hussein.
Prima della guerra del Golfo del 1991, intrapresa dagli USA per
cacciare l’Iraq dal Kuwait, l’Iraq, in campo medico
e sanitario era allo stesso livello di altri paesi europei. In seguito,
lacerato dalla guerra, non aveva più mezzi per medicine e
team medici stranieri che hanno visto nello stesso tempo deteriorate
le loro attività all’interno del paese, negli ospedali
e nelle cliniche. Come reporter era sempre difficile raccontare
di malati e della mancanza di medicine. Assistere a scene di cuori
che smettono di battere spesso rende difficile essere obiettivi.
Il dolore era ovvio ma meno ovvio era chi biasimare. Per esempio
gli ufficiali iracheni, da cui ero sempre accompagnato, attribuivano
la causa del marcato aumento di casi di cancro alle bombe di uranio
impoverito che gli USA avevano usato durante la guerra, mentre gli
USA non solo negavano questo, ma asserivano, in accordo con l’ONU,
che, per la maggio parte, l’Iraq avrebbe potuto permettersi
con il programma Oil for food di importare tutte le medicine necessarie,
se solo il Regime di Baghdad avesse scelto di farlo. A chi credere?
Alcuni
iracheni mi dissero che erano stati privati del lusso delle medicine
da una pre-guerra del Golfo; medicine di cui, per un semplice attacco
di influenza, i cittadini sarebbero stati riforniti gratuitamente
in sovrabbondanza per settimane e settimane così che, a detta
loto, abituati ad avere troppe medicine rispetto alle necessità
non erano pronti ad affrontare la loro radicale diminuzione. Un
altro problema era l’impellente bisogno di personale medico
e infermieristico altamente qualificato, poiché, visto che
i salari in Iraq erano stati ridotti quasi a niente a causa della
crescente inflazione, esso era obbligato ad espatriare per guadagnarsi
da vivere.
Riguardo agli infermieri, l’Iraq una volta era stato capace
di importarli da tutti i paesi stranieri, ma ora non più
e trovare infermieri, specialmente infermiere locali, era quasi
impossibile per ragioni culturali che ponevano un tabù sociale
nelle relazioni con i pazienti malati o morenti.
Al tempo dell’invasione, dati dell’ONU avevano mostrato
un marcato incremento di mortalità infantile che veniva attribuito,
per lo più, alle precarie condizioni sanitarie conseguenti
all’embargo. Ma l’embargo rimase effettivo a causa di
ciò che alcuni paesi occidentali, guidati dagli USA, dicevano
circa il rifiuto di Saddam Hussein ad aprire incondizionatamente
il paese alle ispezioni internazionali sugli armamenti.
Qual è la situazione ora?
Ho lasciato l’Iraq poco dopo l’invasione, nel 2003,
quindi esattamente 3 anni fa.
Da quello che posso capire, lo stato di sicurezza ha ostacolato
qualsiasi progresso della sanità in Iraq.
Le organizzazioni non governatine, ONG, che si sono attivate subito
dopo la caduta di Saddam Hussein, in molti casi sono state obbligate
dalla mancanza di sicurezza a chiudere o a lasciare solo un numero
esiguo del personale all’interno del Paese. Ritengo che prima
che sarà stabilita la sicurezza, ossia fino a quando non
sarà assicurato agli operatori delle ONG di svolgere il loro
lavoro senza minaccia di pericolo o di morte, la situazione sanitaria
non potrà migliorare significativamente.
Io ho molti amici iracheni cristiani che studiano qui a Roma, in
Vaticano. Alcuni di loro esprimono preoccupazione per l’aumento
di violenza contro i cristiani in Iraq, un problema di cui non si
era a conoscenza sotto Saddam Hussein. Mi è stato raccontato
da un giornalista iracheno che diversi gruppi di musulmani obbligano
donne non musulmane a velarsi, minacciandole, in caso contrario.
Un amico musulmano sunnita, il mio droghiere, mi telefona da Baghdad
circa una volta al mese. È un po’ imbarazzante, lui
mi chiama solo per avere mie notizie, per assicurarsi che io stia
bene, come se io fossi quello che sta a Baghdad e lui quello che
sta a Roma! Lui dice di coltivare la speranza che la situazione
politica si risolva da sola, alla fine. Lui era stato al Parlamento,
ma non è stato eletto.
Cosa ricordi maggiormente dell’Iraq?
Ricordo
che, sebbene io fossi americano e giornalista, molta gente era estremamente
gentile con me e voleva conoscere il motivo per cui gli USA non
collaboravano per abolire l’embargo.
Loro mostravano una genuina curiosità verso il mondo esterno
e molti dicevano che avrebbero voluto visitare l’America nonostante
la sua reputazione di essere uno dei paesi sostenitori dell’embargo.
Tutti erano rispettosi del mio credo religioso ed erano felici di
sapere che io a Baghdad andavo a messa nella chiesa cattolica.
Il Papa, a quel tempo Giovanni Paolo II, era molto elogiato per
quello che gli iracheni dicevano fosse il suo messaggio di pace
e di supporto per i territori palestinesi occupati.
Ricordo come la popolazione fosse straordinariamente forte.
Molti di loro che avevano conosciuto i proprio paese solo in stato
di guerra, prima con l’Iran, poi con il Kuwait, poi con l’Occidente,
riuscivano ancora a ridere e divertirsi. Quasi ogni casa, sempre
lo ricorderò, aveva una foto di un giovane uomo, ucciso dalla
guerra di Saddam Hussein con i suoi vicini. Ancora ognuno sembrava
nutrire un filo di speranza. Sono sicuro che se fossi stato spaventato
dalle bombe che sarebbero cadute molti iracheni avrebbero riso dicendo
di aver visto tutto già prima.
Quali sono le tue aspettative per l’Iraq?
È difficile non essere pessimisti. Ma quanto peggio possono
andare le cose? È evidente a molti che non si può
“imporre” la democrazia, ma che essa deve nacsere da
sola con i suoi tempi. Questo non significa accordo con alcune affermazioni
arabe secondo cui la democrazia è solo per l’Occidente.
Io ritengo che ogni nazione possa e debba avere elezioni libere,
un governo rappresentativo e vivere in una società in cui
non si debba avere paura, quotidianamente, di esprimersi. Ma sono
pessimista riguardo al fatto che, l’attuale governo degli
USA in Iraq, stia lavorando in questa direzione.
Sono state fatte false promesse ed ora si trovano in un pasticcio.
Io non so quale sia la risposta a tutto ciò, ma penso che
potrebbe essere di aiuto se gli USA investissero più denaro
al fine di stabilizzare la situazione in Iraq e smettessero di pensare
all’Iran. Il danno fatto finora è sufficiente, non
credi?
Gli iracheni che ho incontrato erano persone come si possono incontrare
qui o negli USA o ovunque. La maggior parte desidera la felicità
e una vita decorosa per loro stessi e per i propri figli. Credo
che una volta data loro la possibilità, essi lavoreranno
in questa direzione, per quanto lento possa essere il processo.
Sto terminando i miei studi di Islamistica al PISAI a Roma e spero
di essere in grado di metterli a servizio qui, in qualche modo,
nella diffusione di una migliore comprensione non solo dell’Iraq
ma dell’intero mondo arabo musulmano. Credo che la maggior
parte delle ansie sull’Islam siano basate su malintesi e sulla
violenza che, per altro, la maggior parte dei musulmani rifiuta?
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