MTM n°18
MEDICAL TEAM MAGAZINE
Anno 6 - Numero 3 - ott/dic 2007
Dibattito
 


Enrico Pugliese
Enrico Pugliese
Professore ordinario di Sociologia all’Università di Napoli “Federico II”


Anno 6 - Numero 3
ott/dic 2007

 

In Italia la distanza sociale tra coloro i quali esercitavano le professioni liberali [medici, avvocati e quant’altro] e la loro clientela era molto elevata ed essa veniva ribadita e sottolineata nel rapporto tra medico e paziente


Alcuni dei problemi che gli anziani esprimono spesso non riguardano il malessere fisico in senso stretto ma sono il riflesso di problematiche più generali, in primo luogo la solitudine e il bisogno di comunicare.




Sul rapporto medico-paziente
Non si può analizzare questo rapporto prescindendo dai valori e dai modelli à

di Enrico Pugliese

Dr. HouseDa non esperto vorrei puntualizzare qualcosa in materia al rapporto tra medico e paziente inquadrandolo nei diversi contesti sociali nei quali esso si verifica. Ciò perché non credo che si possa analizzare questo rapporto prescindendo dai valori e dai modelli culturali prevalenti in una determinata società: all’interno di questi il ruolo del medico [e ovviamente il suo rapporto con il paziente] è visto in maniera molto diversa.
Si pensi solo all’uso che si fa del pronome personale tra medico e paziente in contesti diversi. In America [Stati Uniti] il medico generico dà del tu a tutti i suoi pazienti quale che sia la loro classe sociale e quale che sia la loro età. In Italia un medico di famiglia beneducato dà del lei a tutti suoi pazienti [tranne quelli con i quali è in rapporto di stretta e personale amicizia]. Per quel che ne so solo ai bambini e ai ragazzi i medici usano dare del tu.
Un mio amico preside della Facoltà di Sociologia e studi di comunità di uno dei campus dell’Università della California vantava come operazione temeraria quella di aver risposto, dandogli del tu, al suo medico che naturalmente gli stava dando anch’egli del tu. Non ricordo quale fosse il rapporto di età tra i due ma ricordo benissimo che il mio collega era già ultracinquantenne. Può piacere o no la cosa, ma nella misura in cui il rapporto è istituzionalizzato in questi termini, l’uso del “tu paterno” è meno grave di quanto non risulterebbe in Italia ora. In questo caso l’uso del tu -che alla nostra sensibilità di italiani può davvero sembrare inopportuno e maleducato- non è grave, tranne ovviamente per un’implicita forma di paternalismo che può riferirsi agli aspetti simbolici o agli aspetti reali.
E qui passiamo dalla forma alla sostanza. In Italia quando la distanza sociale tra coloro i quali esercitavano le professioni liberali [medici, avvocati e quant’altro] e la loro clientela era molto elevata ed essa veniva ribadita e sottolineata nel rapporto tra medico e paziente. Il paziente, frequentemente contadino, si rivolgeva naturalmente al medico con il don [almeno nel Mezzogiorno] dando del voi o del lei [al Nord]. Il medico dava del tu al paziente di classe sociale bassa, utilizzando in questo caso non il “tu paterno” bensì il “tu paternalista”. Quest’abitudine, con il passaggio dell’Italia da società rurale a società industriale e post-industriale, è stata ormai largamente superata e i rapporti sono più civili.
La sostanza riguarda specificamente l’attenzione e il rispetto che il medico deve avere nei suoi rapporti con il paziente. E anche in questo caso i modelli – al di là della deontologia codificata, della quale qui non potrei occuparmi - variano da paese a paese. Così negli Stati Uniti l’American Medical Association ha sempre sottolineato la necessità di una distanza forte tra medico e paziente che tenga il medico in una sfera particolare con caratteristiche carismatiche e con un implicito rapporto di autorità. Insomma l’operato del medico deve essere svolto lontano da emozioni, affetti e curiosità. Non a caso il rapporto medico-farmacista si caratterizza per la totale estraneità e passività del paziente che non conosce i dettagli del contenuto delle prescrizioni. D’altronde era così una volta anche da noi quando le ricette del medico le sapeva decifrare solo il farmacista. Il diritto all’informazione del paziente veniva così precluso nell’assunto di una condizione di minorità del paziente stesso o comunque in una concezione che faceva del paziente un oggetto sul quale la competenza e la responsabilità del medico si esercitava senza alcuna forma di scambio.
Ora le cose sono cambiate. E di nuovo qui il contesto sociale risulta essere molto importante giacché diverse sono le situazioni tra un paese e l’altro e anche all’interno di uno stesso paese. Passiamo da situazioni in cui il servizio medico ha carattere assolutamente privato e il paziente - insieme alla prestazione - può acquistare anche il tipo e il carattere del trattamento umano e personale da parte del medico [e soprattutto del personale ausiliario], a situazioni in cui il servizio medico è gratuito e fornito dallo Stato magari da personale di grande qualità ma modestamente retribuito, nel qual caso le procedure e i rapporti sono altamente standardizzati. Naturalmente ci sono una serie di situazioni intermedie ma in Europa il modello prevalente è quello del servizio pubblico mentre quello della medicina privata e personalizzata è - o almeno dovrebbe essere- l’eccezione.
In questo caso, nel caso del servizio pubblico standardizzato, nuove variabili devono intervenire tenendo conto del particolare stato di sofferenza psicologica nel quale il paziente si può venire a trovare anche per una malattia fisica di modesta gravità. Se il modello, per così dire americano, cui abbiamo prima accennato, contempla la istituzionalizzazione della dipendenza del paziente, è tuttavia vero che il paziente tende comunque a sentirsi dipendente e ad aspettarsi dal medico un’attenzione complessiva alla sua persona, al suo essere soggetto sociale, oltre che ovviamente un’attenzione tecnica efficace e impeccabile. Sta proprio in questa dialettica che l’atteggiamento del paziente nei confronti del medico determina il problema nel quale il medico deve districarsi. Da una parte c’è la pretesa del paziente, quale soggetto di diritto, che pretende il trattamento efficace, dall’altra c’è lo stesso paziente che è per definizione debole e indifeso [verrebbe da dire “lo dice la parola stessa”: paziente].
DottoreNella società di oggi -con tutte le differenze da contesto a contesto -da paese a paese, è emersa sempre più chiaramente la necessità di un rapporto con il paziente che tenga conto della complessità della sua figura: un rapporto “olistico”, come si dice ora. La crescente specializzazione tecnica, dovuta anche ai progressi della ricerca scientifica in medicina, comporta l’emergere di una molteplicità di figure tutte distinte che si occupano per definizione solo di una piccola parte del problema del paziente. Certamente ciascuno di essi può avere un rapporto caratterizzato da maggiore o minore rispetto nei confronti del paziente [attenzione, cortesia, puntualità e quant’altro] ma resta comunque limitato alla sua sfera, è così che il paziente di oggi si trova senza un punto di riferimento generale proprio nei momenti in cui il suo caso diventa complesso.
Questo è vero in generale ma diventa sempre più vero con l’emergere di una categoria di pazienti sempre in espansione [e quindi destinata a crescere ulteriormente] che è quella dei pazienti anziani. In questo caso i problemi e le malattie si intrecciano e la domanda alla quale il medico è sottoposto è anche più vasta e profonda del necessario o, comunque, della risposta che il medico può dare. Alcuni dei problemi che gli anziani esprimono spesso non riguardano il malessere fisico in senso stretto ma sono il riflesso di problematiche più generali, in primo luogo la solitudine e il bisogno di comunicare. In questo caso non è più nel rapporto medico paziente il problema ma nel rapporto paziente, anzi persona, e società. E qui si aprirebbe tutto un capitolo sulla questione della prevenzione che esula da queste brevi note.