La saggezza degli alberi
La natura, con i suoi eterni cicli di declino e rinascita, possiede il potere curativo di risvegliare nell’Uomo la consapevolezza della sua identità divina e trascendente
della Dott.ssa Caterina Carloni
L’UTILIZZO TERAPEUTICO DELLE PIANTE si ritrova in
tutti i sistemi di cura, da quelli più antichi e
basati sull’osservazione e sull’esperienza
pratica, a quelli più sofisticati e con livelli di
complessità teorica elevata, fino alla moderna
biomedicina.
Comune a tutte le culture e a tutte le popolazioni
sin dalla preistoria, la fitoterapia prevede
l’utilizzo di piante o estratti di piante
per la cura delle malattie o per il mantenimento
del benessere.
Il termine viene dal greco phyton [pianta] e
terapeia [cura].
Considerata medicina alternativa o complementare,
per Ippocrate rappresentava il
terzo strumento del medico accanto al tocco
e alla parola.
La sua importanza, però, trascende i confini
della medicina empirica, se si considera
la straordinaria e prolifica letteratura dei temi
simbolici collegati alle piante, al loro linguaggio
e alla potenza evocativa e comunicativa
delle immagini ad esse collegate.
Già negli anni Trenta il medico britannico
Edward Bach ne aveva intuito tutto il potere
curativo sottile, ideando quella geniale
“terapia dei fiori” oggi nota e diffusa in tutto
il mondo.
Secondo il Dottor Bach, la cura della persona
deve prendere in considerazione soprattutto
la prevenzione e la conoscenza dei disturbi
psicologici, i quali determinerebbero
i sintomi fisici. Il singolo fiore, in questa ottica,
avrebbe la funzione di curare il disturbo
emotivo che ha causato, o potrebbe causare,
il malessere fisico. Ogni squilibrio fisico
maschera, di conseguenza, un disagio
dell’anima.
«La salute è la completa e armonica unione
di anima, mente e corpo; non è un ideale così
difficile da raggiungere, ma qualcosa di facile
e naturale che molti di noi hanno trascurato
»: questa celebre affermazione di E.
Bach suggerisce le implicazioni filosofiche di
questo metodo e il profondo amore dello
studioso per la natura.
L’evidente analogia tra l’immagine del corpo
umano e la struttura degli alberi suggerì al ricercatore
svizzero Emil Jucker l’ideazione
negli anni ‘50 di un test psicologico noto come
“Baumtest”, o test dell’albero. Le sue ricerche
avevano confermato che l’uomo, attraverso
dinamiche inconsce, si identifica
nell’albero e si proietta in quella forma verticale
che ricorda la posizione eretta, esattamente
come aveva ipotizzato lo psicanalista
Carl Gustav Jung. Il disegno dell’albero veniva
pertanto ritenuto l’equivalente di un
autoritratto. I risultati delle ricerche del dottor
Jucker furono raccolti da Karl Koch ne “Il reattivo dell’albero” [OS, 1984, Firenze].
Il test fa parte dei reattivi proiettivi, quelli in
cui, di getto, senza indicazioni o soluzioni
suggerite, la persona esprime i suoi lati oscuri.
Nel test viene richiesto di disegnare un albero.
Karl Koch interpreta l’albero disegnato
dividendolo in tre parti: 1] le radici sono la
parte nascosta di una pianta, forniscono nutrimento
e trattengono l’albero al terreno,
per cui rappresentano la parte più inconscia
e istintiva dell’Io, l’espressione della capacità
di radicarsi nella realtà e la parte da cui viene
tratta l’energia vitale; 2] il tronco è espressione
dell’Io vissuto, per cui analizzarne forma,
dimensione, inclinazione significa studiare
il carattere e la vita cosciente del disegnatore;
3] la chioma [e quindi anche i rami
ed eventualmente i frutti] rappresenta la capacità
di interagire con l’ambiente e l’espressione
della vitalità mentale [aspirazioni,
interessi e ideali].
Il Baumtest non consente certo una completa
analisi del carattere, ma può completare
o arricchire i dati ottenuti con altri metodi
considerati più precisi. Da sempre considerato
la raffigurazione del cosmo vivente
in continua rigenerazione, l’albero evoca il
carattere ciclico dell’evoluzione degli universi,
la continua alternanza di morte e rinascita.
L’albero, inoltre, mette in comunicazione
i tre livelli del cosmo: quello sotterraneo,
per le radici che scavano le profondità
in cui affondano; la superficie della terra, per
il tronco e i primi rami; i cieli, per i rami superiori
e la cima attirata dalla luce del sole.
Esso riunisce tutti gli elementi: l’acqua circola
con la linfa, la terra si integra al suo corpo attraverso
le radici, l’aria nutre le sue foglie, il
fuoco si sprigiona dal legno se lo si strofina.
Per le sue radici affondate al suolo e per i rami
che s’innalzano al cielo, l’albero è universalmente
ritenuto un simbolo dei rapporti
che si possono stabilire fra la terra e il
cielo; il suo simbolismo di asse del mondo
trova la sua rappresentazione ideale nella
quercia in Gallia, nel tiglio presso i Germani,
nel frassino in Scandinavia, nell’olivo nell’Islam,
nel baniano in India, nella betulla o larice
in Siberia.
Secondo una tradizione cinese l’albero
Chien-mu[Legno diritto] è al centro del mondo
e lungo di esso ascendono i sovrani per accordare
fra loro Cielo e Terra; nell’antico Egitto
l’albero sacro per eccellenza è Nehet, il sicomoro,
«sui cui rami abitano gli dei», come
si legge nei Testi delle Piramidi, ma più spesso
tale albero era per gli Egizi simboleggiato
da Djed, la colonna sacra munita di quattro
capitelli, ritenuta a sua volta simbolo della
colonna vertebrale. Nella Bibbia si narra dell’albero
della Vita piantato al centro del Paradiso
terrestre. In America l’immagine dell’Albero
cosmico ritorna nell’uso Sioux di
piantare un albero al centro dello spazio riservato
alla danza del Sole, oppure, nella civiltà
azteca, come emblema di Quetzalcoatl,
il “Serpente piumato”, dio supremo ed eroe
capostipite degli Aztechi, nonché simbolo solare
della divinizzazione dell’uomo.
Non è un caso se la Medicina Psicosomatica
sviluppatasi in Occidente ha accettato universalmente
come suo simbolo distintivo, al
pari del caduceo della tradizione medica,
l’archetipo dell’albero rovesciato.
«L’uomo è come una pianta rovesciata con le
radici che tendono al cielo e i rami verso terra
», diceva Platone.
«L’Universo è un albero rovesciato che
affonda le radici in cielo e stende i rami sopra
tutta la terra», è scritto nel Rig Veda.
«Io so che esiste un frassino chiamato Yggdrasil,
un alto albero, bagnato di bianca brina;
di là derivano le rugiade che cadono nelle
valli, e sempre verde sta presso la fonte di
Urdhr» [Voluspa, 19]. Così recita nel poema
nordico Edda, l’indovina interrogata da
Odino sul destino del mondo. Yggdrasill, come
l’Asvattha indiano, è il simbolo dell’Universo.
Si leva al centro di esso, la sua cima
tocca la dimora degli dei, mentre i suoi rami
abbracciano il mondo terrestre.
«Esiste un albero baniano, le cui radici si dirigono
verso l’alto e i rami verso il basso; le
sue foglie sono gli inni vedici. Chi lo conosce,
conosce i Veda. La vera forma di quest’albero
non può essere percepita in questo mondo.
Nessuno può vederne la fine, l’inizio o la
base. Tuttavia si deve abbattere con determinazione
quest’albero così profondamente
radicato usando l’arma del distacco. In seguito
si deve cercare quel luogo dal quale,
dopo averlo raggiunto, non si torna più indietro
», afferma Dio stesso nella Bhagavadgita.
Questa immagine rappresenta l’universo
materiale come estensione di un’altra
realtà, immanifesta e originale, di cui l’albero
è solo il riflesso.
Anche l’uomo, come l’albero rovesciato,
affonda le sue radici in una realtà senza
tempo che sfugge alla percezione sensoriale,
in un universo la cui ricerca e comprensione,
tuttavia, sono l’unica garanzia di felicità
e benessere.
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