La
sessualità della persona disabile
di Pino Petrachi
Psicologo Clinico – Psicoanalista
Presidente e Responsabile dell’area psicologica dell’A.S.DI.
(Centro di Assistenza alla persona e alla Famiglia)
Svolge attività privata di psicoterapia individuale e di
gruppo.
Direttore e Docente della Scuola
di Counseling dell’A.S.DI.
Nonostante si sia parlato molto in
questi ultimi anni sia di sessualità che di handicap, inteso
quest’ultimo come ostacolo, interno o esterno, alla persona
portatrice che le impedisce una totale manifestazione delle sue
potenzialità, raramente i due termini sono stati associati
ad uno stesso individuo.
L’handicap porta dentro di sé, nella cultura in cui
siamo immersi, una serie di caratteristiche affiancate alla diversità,
all’emarginazione, alla malattia, alla morte, una miscela
esplosiva il cui evitamento porta alla negazione più o meno
consapevole che la persona con handicap sia sessuata.
Il portatore di handicap, infatti, è tutt’ora identificato
con il suo deficit, negando così all’individuo la complessità
dei suoi sentimenti, della sua originalità, dei suoi bisogni.
Soprattutto i bisogni sessuali del portatore di handicap sono semplicemente
‘dimenticati’ dalle persone normodotate. Quest’ultime
preferiscono ignorare che certe pulsioni e certi bisogni emozionali
esistano in loro e qualche volta preferiscono reprimerli nel portatore
di handicap, come repressione della propria sessualità handicappata.
Il piacere che viene dal corpo (essere toccato, pulito, nutrito)
fa parte di quei piaceri primari che costituiscono l’essenza
di sentirsi vivi, dell’esserci e che, in altre parole, rappresentano
i primi pilastri del senso della propria identità separata
ed ugualmente in comunicazione con l’altro. È un intreccio
inscindibile, ciò che attraverso il corpo promuove il senso
di sé, la sensazione di esistere come soggetto sempre più
definito. Lo sviluppo di un bambino dipende dal dialogo incessante
fra sé e chi si prende cura di lui, un dialogo dalle innumerevoli
sfaccettature nelle quali il corpo è lo strumento più
immediato. Nelle persone con handicap dalla nascita, il segnale
piacere viene generalmente a mancare o ad essere perturbato fin
dalla prima e fondamentale relazione: quella con la madre.
La madre ferita e spesso schiacciata da sentimenti di colpa per
il fatto di aver messo al mondo un “bambino anormale”,
infatti, potrà reagire riducendo o addirittura evitando il
contatto corporeo con il figlio (funzioni di pulizia sbrigative,
pochi abbracci, poche carezze, poco contatto in genere) alterando
così la già fragile continuità di quel dialogo
tra madre e figlio così denso di significati da comprendere
e utilizzare.
Ulteriore fonte di danneggiamento subita dal bambino portatore di
handicap è rappresentata dalla difficoltà e spesso
dall’impossibilità di raggiungere lo stadio di ‘individuazione’
in cui si separa dalla madre per esplorare l’ambiente circostante,
promuovendo così la sua autonomizzazione ed il suo sviluppo.
Il bambino, dunque, per sua stessa natura, non consente quella corrente
‘sensuale’ tra se stesso e la madre, momento fondamentale
nell’autopercezione di sé come soggetto che desidera
e come oggetto di desiderio.
La profonda ferita narcisistica della madre, che sente di essere
stata una madre inadeguata partorendo un figlio ‘anormale’,
la legherà probabilmente per tutta la vita al figlio: questa
donna spesso non riesce più a concepirsi senza l’handicap
del bambino handicappato. Inoltre ha proprio la sensazione che solo
lei potrà effettivamente seguirlo ed amarlo, sentendosi in
colpa per non essere stata perfetta. Questo bagaglio esperienziale
porta la persona handicappata a porre egli stesso, per primo, un
muro nei confronti dell’Altro.
Un aspetto che appare interessante considerare riguarda le problematiche
relazionali e sessuali in genitori di figli handicappati. In questo
ambito il riferimento specifico è quello di Eibl Eibesfeldt
che interpreta la coesione della coppia in funzione della cura del
figlio: i rapporti sessuali, possibili per la coppia umana tutto
l’anno, sono interpretatati in funzione del rafforzamento
del legame tra i coniugi per meglio garantire la sopravvivenza del
figlio e gli scambi affettuosi costituirebbero un’estensione
più o meno ritualizzata delle cure destinate al figlio.
Nel caso di un figlio handicappato la coesione della coppia genitoriale
tenderebbe a diminuire, per l’eccessiva rigida costituzione
della coppia madre-figlio e paradossalmente, là dove si protrae
o addirittura non cessa mai il bisogno di cure genitoriali per un
figlio, verrebbe meno la coesione della coppia madre-padre che ne
garantisce la sopravvivenza. Sembrerebbe quasi, in questa ottica
teorica, che la natura allentando i legami di coppia voglia diminuire
le possibilità di sopravvivenza ad un bambino che non risponde
ad un programma genetico-evolutivo.
Il senso di fallimento, di colpa, di sfiducia, unito all’estensione
della disabilità del figlio, induce infatti un cronicizzarsi
della fase simbiotica normale, che caratterizza i primi momenti
della relazione madre-bambino, ma anche delle persone a lui vicine
che quasi patologicamente tendono a cristallizzare la loro vita
in un presente denso di routine non modificabile in progetti. Il
ruolo materno, riducendosi a volte, in casi gravi, solo a quello
di accudimento infermieristico, tende a svuotarsi del suo significato
fondamentale: quello di rispondere in modo dinamico e quindi di
accompagnare, modificandosi contemporaneamente, ogni progressiva
evoluzione del piccolo che cresce.
In un circolo chiuso gli elementi negativi (coppia simbiotica madre-bambino
e diminuzione della coesione nella coppia genitoriale) si rafforzano
a vicenda. La relazione di coppia diventa così una pseudovicinanza
in cui ciascuno vive la propria solitudine mentre si rafforza un
legame con il figlio che mina e impedisce l’intimità
dei coniugi contribuendo all’allentamento dei rapporti di
coppia. Si assiste così ad un processo di ‘scotomizzazione’
per cui si ha l’impressione che questi genitori, e soprattutto
la madre, non possano più concedersi il permesso nella quotidianità
di ricercare momenti di piacere. In una sorta di autoprivazione
della dimensione ludica dell’esistenza, come espressione creativa
ed autentica dell’essere umano pare loro più consona
la sofferenza, in una vita che diventa un lungo e doloroso processo
catartico. Una coincidenza di vita simbiotica di questo tipo ha
in sé intrinseca la difficoltà di poter maneggiare
problematiche sessuali del figlio ed anche le proprie.
Spostandoci verso aspetti più squisitamente sociali si può
affermare che la sessualità è una dimensione molto
spesso esclusa dai progetti educativi per i portatori di handicap.
Eppure la prepotenza e la drammaticità con la quale essa
s’impone all’attenzione degli operatori e dei genitori
sottolinea con forza la necessità di interventi che non rappresentino
soltanto una risposta improvvisata ed occasionale ad una situazione
di crisi, ma si inseriscano in maniera coerente e rigorosa all’interno
della logica della programmazione educativa, anche con finalità
di natura preventiva. La maggior parte dei programmi educativi per
l’handicap sono finalizzati a promuovere l’acquisizione
di competenze ed abilità di autonomia personale che consentano
all’individuo di assumere ruoli e funzioni sociali adeguati
compatibilmente con i limiti imposti dalla disabilità.
In effetti, molte richieste di consulenza e di intervento per problematiche
sessuali di persone handicappate, riguardano condotte ed atteggiamenti
disturbanti o pericolosi che rischiano di limitare l’autonomia
della persona che li produce o quella delle persone che vivono accanto
a lei. Esistono, tuttavia, molte altre situazioni in cui la vita
sessuale del portatore di handicap non rappresenta un problema sociale
perché viene vissuta con riservatezza, in solitudine, o all’interno
di un legame di coppia più o meno stabile. Ed è proprio
in queste situazioni che diventa più difficile giustificare
l’utilità o la necessità di intervenire. Intervenire
nella vita sessuale delle altre persone, anche se handicappate,
costruendo un’ipotesi ed una teoria del cambiamento basata
unicamente sul buon senso, espone al rischio di escludere dal progetto
proprio i bisogni della persona alla quale è rivolto l’intervento,
perdendo in questo modo un importante accesso alla sua vita affettiva
e quindi un prezioso strumento di lavoro con lei.
È importante dunque sforzarsi di capire in quale direzione
ci si muove, quali criteri, quali esperienze, quali riferimenti
culturali guidano e sostengono le scelte educative, quale idea di
sessualità si usa e quale idea si propone invece alle persone
handicappate. Le complesse problematiche che caratterizzano la sessualità
delle persone handicappate mettono in evidenza alcune drammatiche
contraddizioni del nostro atteggiamento educativo. La prima contraddizione
riguarda proprio le sue finalità. Uno dei presupposti teorici
e metodologici irrinunciabili ai programmi educativi per l’handicap
si fonda sul concetto di massima autonomia possibile. Tale concetto,
che riconosce la necessità di restituire al disabile i più
ampi spazi possibili di autodeterminazione, è tuttavia applicato
con estrema difficoltà all’ambito sessuologico. Quando,
infatti, all’interno di un progetto educativo diventa necessario
affrontare il tema della sessualità, si tende solitamente
a sostituire il principio della massima autonomia possibile con
quello della minima autonomia indispensabile. Probabilmente concedere
una maggiore autonomia sessuale alle persone disabili spaventa più
noi di quanto sia un problema per loro. La seconda contraddizione
sul piano metodologico riguarda la tendenza a privilegiare interventi
a carattere repressivo, finalizzati al contenimento delle spinte
sessuali, rispetto ad interventi più propriamente educativi.
Negli ambienti in cui la sessualità è completamente
negata, lì è molto probabile che la persona handicappata
non possa figurarsi uno stimolo sessuale eteroindotto, e probabilmente
ogni forma di sessualità è convogliata nella sublimazione.
Spesso, sono però gli stessi portatori di handicap ad avere
pregiudizi riguardo i loro desideri perché a causa di uno
scarso contatto con il proprio Sé hanno dovuto rimuovere
il “desiderio” dalla loro vita. Queste persone sono
troppo spesso in uno stato di dipendenza da diverse figure, si trovano
in uno stato di bisogno o meglio non si sono potute evolvere dallo
stato di bisogno. Di fatto, non possono desiderare e quindi scegliere.
Si comprende da ciò l’importanza per questi individui,
che sono prima di tutto esseri umani, di promuovere l’informazione
sessuale (ovviamente in relazione alla loro capacità di comprendere),
soddisfare la curiosità, incentivare le relazioni (anche
le relazioni sessuali): portare, insomma la persona handicappata
ad una completa uguaglianza nell’espressione affettiva e sessuale.
Il recupero della dimensione affettiva e sessuale ha, in molti casi,
consentito di ottenere risultati impensabili anche all’interno
di curricola per i quali erano stati spesi anni di paziente ed improduttivo
lavoro. Ogni persona handicappata avrà poi un suo modo originale
di tradurre a livello comportamentale ciò che ritiene sia
la sessualità, attingendo alla propria esperienza, alla propria
sensibilità, alla propria storia e anche al proprio handicap.
Si vedrà sovente che in effetti ciò che il soggetto
ricerca non è tanto l’accoppiamento sessuale, il rapporto
completo, quanto la necessità di soddisfare bisogni relazionali
e affettivi rimasti senza risposta.
Per prevedere in quale modo riescano a gestire una maggiore autonomia
sessuale è, inoltre, indispensabile comprendere quale idea
di sessualità stiano usando, quali significati abbia per
loro il “fare l’amore”, di quali comportamenti
o aspettative sia fatta la loro vita sessuale, quali gesti, quali
immagini, quali sensazioni sono contenuti, o potrebbero essere contenuti
nella loro idea di sessualità..
Per educare alla sessualità di persone portatrici di handicap
è necessario fare riferimento ad una teoria della sessualità
nella quale possano essere immaginati spazi di vita, di espressione,
di intervento adatti ai disabili. Ogni vero piano di educazione
dovrebbe, inoltre, considerare la persona handicappata realmente
inserita nella società, e quindi includere la possibilità
di inserimento del soggetto nel tessuto sociale a contatto con le
realtà del territorio, ricevendo dunque contatti diversi
ed esperienze “reali”. Infine bisogna considerare che,
in una pianificazione di trattamento rivolto al portatore di handicap,
l’attenzione al corpo è fondamentale non solo nel senso
del ripristino della sua motricità e funzionalità,
ma anche e soprattutto quale veicolo di scambio emotivo e affettivo,
attraverso la manipolazione, la vicinanza “pelle a pelle”,
lo strofinio, sia da parte di operatori che di altre figure della
sua rete sociale. Queste pratiche sono altamente terapeutiche, soprattutto
aggiungono porzioni psicologiche atte alla crescita evolutiva.
Il portatore di handicap deve essere quindi aiutato e stimolato
nella conquista delle proprie potenzialità nel campo affettivo,
sessuale, interpersonale, sociale e creativo per facilitare l’accettazione
della propria diversità: ciascuno deve lottare per farsi
riconoscere nella propria diversità e rinunciare al pensiero
magico di poter modificare ciò che modificabile non è,
accettare il proprio corpo con le sue limitazioni, con le sue incongruenze,
con le sue facili deperibilità, con la sua morte.
Un ringraziamento alla Dottoressa
Rosaria Furnari per l’aiuto dato nella stesura dell’articolo.
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