MTM n°7
MEDICAL TEAM MAGAZINE
Anno 3 - Numero 1/2 - gen/apr 2004
Sessualità e handicap (articolo integrale)
 


Pino Petrachi
Pino Petrachi

Anno 3 - Numero 1/2
gen/apr 2004


La sessualità della persona disabile
di Pino Petrachi


Psicologo Clinico – Psicoanalista
Presidente e Responsabile dell’area psicologica dell’A.S.DI.
(Centro di Assistenza alla persona e alla Famiglia)
Svolge attività privata di psicoterapia individuale e di gruppo.
Direttore e Docente della Scuola di Counseling dell’A.S.DI.

Nonostante si sia parlato molto in questi ultimi anni sia di sessualità che di handicap, inteso quest’ultimo come ostacolo, interno o esterno, alla persona portatrice che le impedisce una totale manifestazione delle sue potenzialità, raramente i due termini sono stati associati ad uno stesso individuo.
L’handicap porta dentro di sé, nella cultura in cui siamo immersi, una serie di caratteristiche affiancate alla diversità, all’emarginazione, alla malattia, alla morte, una miscela esplosiva il cui evitamento porta alla negazione più o meno consapevole che la persona con handicap sia sessuata.
Il portatore di handicap, infatti, è tutt’ora identificato con il suo deficit, negando così all’individuo la complessità dei suoi sentimenti, della sua originalità, dei suoi bisogni. Soprattutto i bisogni sessuali del portatore di handicap sono semplicemente ‘dimenticati’ dalle persone normodotate. Quest’ultime preferiscono ignorare che certe pulsioni e certi bisogni emozionali esistano in loro e qualche volta preferiscono reprimerli nel portatore di handicap, come repressione della propria sessualità handicappata.
Il piacere che viene dal corpo (essere toccato, pulito, nutrito) fa parte di quei piaceri primari che costituiscono l’essenza di sentirsi vivi, dell’esserci e che, in altre parole, rappresentano i primi pilastri del senso della propria identità separata ed ugualmente in comunicazione con l’altro. È un intreccio inscindibile, ciò che attraverso il corpo promuove il senso di sé, la sensazione di esistere come soggetto sempre più definito. Lo sviluppo di un bambino dipende dal dialogo incessante fra sé e chi si prende cura di lui, un dialogo dalle innumerevoli sfaccettature nelle quali il corpo è lo strumento più immediato. Nelle persone con handicap dalla nascita, il segnale piacere viene generalmente a mancare o ad essere perturbato fin dalla prima e fondamentale relazione: quella con la madre.
La madre ferita e spesso schiacciata da sentimenti di colpa per il fatto di aver messo al mondo un “bambino anormale”, infatti, potrà reagire riducendo o addirittura evitando il contatto corporeo con il figlio (funzioni di pulizia sbrigative, pochi abbracci, poche carezze, poco contatto in genere) alterando così la già fragile continuità di quel dialogo tra madre e figlio così denso di significati da comprendere e utilizzare.
Ulteriore fonte di danneggiamento subita dal bambino portatore di handicap è rappresentata dalla difficoltà e spesso dall’impossibilità di raggiungere lo stadio di ‘individuazione’ in cui si separa dalla madre per esplorare l’ambiente circostante, promuovendo così la sua autonomizzazione ed il suo sviluppo. Il bambino, dunque, per sua stessa natura, non consente quella corrente ‘sensuale’ tra se stesso e la madre, momento fondamentale nell’autopercezione di sé come soggetto che desidera e come oggetto di desiderio.
La profonda ferita narcisistica della madre, che sente di essere stata una madre inadeguata partorendo un figlio ‘anormale’, la legherà probabilmente per tutta la vita al figlio: questa donna spesso non riesce più a concepirsi senza l’handicap del bambino handicappato. Inoltre ha proprio la sensazione che solo lei potrà effettivamente seguirlo ed amarlo, sentendosi in colpa per non essere stata perfetta. Questo bagaglio esperienziale porta la persona handicappata a porre egli stesso, per primo, un muro nei confronti dell’Altro.
Un aspetto che appare interessante considerare riguarda le problematiche relazionali e sessuali in genitori di figli handicappati. In questo ambito il riferimento specifico è quello di Eibl Eibesfeldt che interpreta la coesione della coppia in funzione della cura del figlio: i rapporti sessuali, possibili per la coppia umana tutto l’anno, sono interpretatati in funzione del rafforzamento del legame tra i coniugi per meglio garantire la sopravvivenza del figlio e gli scambi affettuosi costituirebbero un’estensione più o meno ritualizzata delle cure destinate al figlio.
Nel caso di un figlio handicappato la coesione della coppia genitoriale tenderebbe a diminuire, per l’eccessiva rigida costituzione della coppia madre-figlio e paradossalmente, là dove si protrae o addirittura non cessa mai il bisogno di cure genitoriali per un figlio, verrebbe meno la coesione della coppia madre-padre che ne garantisce la sopravvivenza. Sembrerebbe quasi, in questa ottica teorica, che la natura allentando i legami di coppia voglia diminuire le possibilità di sopravvivenza ad un bambino che non risponde ad un programma genetico-evolutivo.
Il senso di fallimento, di colpa, di sfiducia, unito all’estensione della disabilità del figlio, induce infatti un cronicizzarsi della fase simbiotica normale, che caratterizza i primi momenti della relazione madre-bambino, ma anche delle persone a lui vicine che quasi patologicamente tendono a cristallizzare la loro vita in un presente denso di routine non modificabile in progetti. Il ruolo materno, riducendosi a volte, in casi gravi, solo a quello di accudimento infermieristico, tende a svuotarsi del suo significato fondamentale: quello di rispondere in modo dinamico e quindi di accompagnare, modificandosi contemporaneamente, ogni progressiva evoluzione del piccolo che cresce.
In un circolo chiuso gli elementi negativi (coppia simbiotica madre-bambino e diminuzione della coesione nella coppia genitoriale) si rafforzano a vicenda. La relazione di coppia diventa così una pseudovicinanza in cui ciascuno vive la propria solitudine mentre si rafforza un legame con il figlio che mina e impedisce l’intimità dei coniugi contribuendo all’allentamento dei rapporti di coppia. Si assiste così ad un processo di ‘scotomizzazione’ per cui si ha l’impressione che questi genitori, e soprattutto la madre, non possano più concedersi il permesso nella quotidianità di ricercare momenti di piacere. In una sorta di autoprivazione della dimensione ludica dell’esistenza, come espressione creativa ed autentica dell’essere umano pare loro più consona la sofferenza, in una vita che diventa un lungo e doloroso processo catartico. Una coincidenza di vita simbiotica di questo tipo ha in sé intrinseca la difficoltà di poter maneggiare problematiche sessuali del figlio ed anche le proprie.
Spostandoci verso aspetti più squisitamente sociali si può affermare che la sessualità è una dimensione molto spesso esclusa dai progetti educativi per i portatori di handicap. Eppure la prepotenza e la drammaticità con la quale essa s’impone all’attenzione degli operatori e dei genitori sottolinea con forza la necessità di interventi che non rappresentino soltanto una risposta improvvisata ed occasionale ad una situazione di crisi, ma si inseriscano in maniera coerente e rigorosa all’interno della logica della programmazione educativa, anche con finalità di natura preventiva. La maggior parte dei programmi educativi per l’handicap sono finalizzati a promuovere l’acquisizione di competenze ed abilità di autonomia personale che consentano all’individuo di assumere ruoli e funzioni sociali adeguati compatibilmente con i limiti imposti dalla disabilità.
In effetti, molte richieste di consulenza e di intervento per problematiche sessuali di persone handicappate, riguardano condotte ed atteggiamenti disturbanti o pericolosi che rischiano di limitare l’autonomia della persona che li produce o quella delle persone che vivono accanto a lei. Esistono, tuttavia, molte altre situazioni in cui la vita sessuale del portatore di handicap non rappresenta un problema sociale perché viene vissuta con riservatezza, in solitudine, o all’interno di un legame di coppia più o meno stabile. Ed è proprio in queste situazioni che diventa più difficile giustificare l’utilità o la necessità di intervenire. Intervenire nella vita sessuale delle altre persone, anche se handicappate, costruendo un’ipotesi ed una teoria del cambiamento basata unicamente sul buon senso, espone al rischio di escludere dal progetto proprio i bisogni della persona alla quale è rivolto l’intervento, perdendo in questo modo un importante accesso alla sua vita affettiva e quindi un prezioso strumento di lavoro con lei.
È importante dunque sforzarsi di capire in quale direzione ci si muove, quali criteri, quali esperienze, quali riferimenti culturali guidano e sostengono le scelte educative, quale idea di sessualità si usa e quale idea si propone invece alle persone handicappate. Le complesse problematiche che caratterizzano la sessualità delle persone handicappate mettono in evidenza alcune drammatiche contraddizioni del nostro atteggiamento educativo. La prima contraddizione riguarda proprio le sue finalità. Uno dei presupposti teorici e metodologici irrinunciabili ai programmi educativi per l’handicap si fonda sul concetto di massima autonomia possibile. Tale concetto, che riconosce la necessità di restituire al disabile i più ampi spazi possibili di autodeterminazione, è tuttavia applicato con estrema difficoltà all’ambito sessuologico. Quando, infatti, all’interno di un progetto educativo diventa necessario affrontare il tema della sessualità, si tende solitamente a sostituire il principio della massima autonomia possibile con quello della minima autonomia indispensabile. Probabilmente concedere una maggiore autonomia sessuale alle persone disabili spaventa più noi di quanto sia un problema per loro. La seconda contraddizione sul piano metodologico riguarda la tendenza a privilegiare interventi a carattere repressivo, finalizzati al contenimento delle spinte sessuali, rispetto ad interventi più propriamente educativi. Negli ambienti in cui la sessualità è completamente negata, lì è molto probabile che la persona handicappata non possa figurarsi uno stimolo sessuale eteroindotto, e probabilmente ogni forma di sessualità è convogliata nella sublimazione.
Spesso, sono però gli stessi portatori di handicap ad avere pregiudizi riguardo i loro desideri perché a causa di uno scarso contatto con il proprio Sé hanno dovuto rimuovere il “desiderio” dalla loro vita. Queste persone sono troppo spesso in uno stato di dipendenza da diverse figure, si trovano in uno stato di bisogno o meglio non si sono potute evolvere dallo stato di bisogno. Di fatto, non possono desiderare e quindi scegliere. Si comprende da ciò l’importanza per questi individui, che sono prima di tutto esseri umani, di promuovere l’informazione sessuale (ovviamente in relazione alla loro capacità di comprendere), soddisfare la curiosità, incentivare le relazioni (anche le relazioni sessuali): portare, insomma la persona handicappata ad una completa uguaglianza nell’espressione affettiva e sessuale.
Il recupero della dimensione affettiva e sessuale ha, in molti casi, consentito di ottenere risultati impensabili anche all’interno di curricola per i quali erano stati spesi anni di paziente ed improduttivo lavoro. Ogni persona handicappata avrà poi un suo modo originale di tradurre a livello comportamentale ciò che ritiene sia la sessualità, attingendo alla propria esperienza, alla propria sensibilità, alla propria storia e anche al proprio handicap. Si vedrà sovente che in effetti ciò che il soggetto ricerca non è tanto l’accoppiamento sessuale, il rapporto completo, quanto la necessità di soddisfare bisogni relazionali e affettivi rimasti senza risposta.
Per prevedere in quale modo riescano a gestire una maggiore autonomia sessuale è, inoltre, indispensabile comprendere quale idea di sessualità stiano usando, quali significati abbia per loro il “fare l’amore”, di quali comportamenti o aspettative sia fatta la loro vita sessuale, quali gesti, quali immagini, quali sensazioni sono contenuti, o potrebbero essere contenuti nella loro idea di sessualità..
Per educare alla sessualità di persone portatrici di handicap è necessario fare riferimento ad una teoria della sessualità nella quale possano essere immaginati spazi di vita, di espressione, di intervento adatti ai disabili. Ogni vero piano di educazione dovrebbe, inoltre, considerare la persona handicappata realmente inserita nella società, e quindi includere la possibilità di inserimento del soggetto nel tessuto sociale a contatto con le realtà del territorio, ricevendo dunque contatti diversi ed esperienze “reali”. Infine bisogna considerare che, in una pianificazione di trattamento rivolto al portatore di handicap, l’attenzione al corpo è fondamentale non solo nel senso del ripristino della sua motricità e funzionalità, ma anche e soprattutto quale veicolo di scambio emotivo e affettivo, attraverso la manipolazione, la vicinanza “pelle a pelle”, lo strofinio, sia da parte di operatori che di altre figure della sua rete sociale. Queste pratiche sono altamente terapeutiche, soprattutto aggiungono porzioni psicologiche atte alla crescita evolutiva.
Il portatore di handicap deve essere quindi aiutato e stimolato nella conquista delle proprie potenzialità nel campo affettivo, sessuale, interpersonale, sociale e creativo per facilitare l’accettazione della propria diversità: ciascuno deve lottare per farsi riconoscere nella propria diversità e rinunciare al pensiero magico di poter modificare ciò che modificabile non è, accettare il proprio corpo con le sue limitazioni, con le sue incongruenze, con le sue facili deperibilità, con la sua morte.

Un ringraziamento alla Dottoressa Rosaria Furnari per l’aiuto dato nella stesura dell’articolo.